Ricapitoliamo velocemente come sei arrivato fin qua…
«Dopo essermi laureato nel 2002 al Politecnico di Milano, ho lavorato per un anno alla Sunstar Braking di Briosco, per poi passare dal gennaio 2004 in Ducati Corse: in quell’anno abbiamo iniziato a sviluppare il software per la MotoGP, che allora era ancora in fase embrionale. Fino al 2007 ho lavorato con il team sviluppo alle varie strategie di gestione motore, come Traction Control, freno motore, ride by wire: due volte al mese, meteo permettendo, effettuavamo dei test in pista (a Jerez, Valencia, Barcellona, Mugello o Misano) con l’allora collaudatore Vittoriano Guareschi. Il resto del tempo, invece, lo passavamo a provare le varie strategie al simulatore e al banco prova, per verificarne l’affidabilità o l’impatto sul motore: per esempio, effettuando test al banco sull’affidabilità del freno motore potevamo confrontare il valore effettivo in uscita della coppia con quello stimato dal software, cosa che, all’epoca, in pista non era possibile verificare. Dal 2008, oltre allo sviluppo in MotoGP, ho iniziato la mia carriera da Capotecnico, affiancando Biaggi in Superbike, per poi passare a tempo pieno alle GP l’anno successivo con il Team Pramac».

Sostanzialmente hai vissuto quasi interamente la storia di Ducati in MotoGP (iniziata nel 2003), comprese le vittorie di Stoner.
«Stoner era un fenomeno, talento puro, ma per la vittoria del mondiale nel 2007 bisogna considerare anche che già nel 2006, ultimo anno dei 1000cc, Capirossi si giocò il Mondiale. La moto – Capirossi e Bayliss su Ducati Ufficiale, Hoffman e Cardoso su Pramac – era abbastanza competitiva con tutti. Dall’anno successivo, con il passaggio agli 800cc, il motore Ducati aveva un grosso vantaggio rispetto alla concorrenza e con il talento di Casey si è potuto capitalizzare».
Dopo Stoner, però, fu il turno di Rossi. Com’è stato il passaggio?
«Un disastro contrariamente alle aspettative. Per spezzare una lancia in favore di Valentino, il vantaggio del motore Ducati era andato via via scemando nel corso degli anni già prima del suo arrivo, assottigliando il gap che separava gli avversari e mettendo in risalto i limiti della moto: sebbene Stoner riuscisse ancora a vincere, il passaggio al monogomma Bridgestone nel 2009 fu il colpo di grazia. Se prima potevi sopperire ad alcuni problemi di ciclistica cambiando solamente la specifica di gomma, dal 2009 le gomme eran le stesse per tutti, e i problemi risultavano sempre più evidenti, tant’è vero che lo stesso Casey iniziò a faticare. Con l’arrivo di Valentino e il passaggio di Stoner a Honda nel 2011, tutti questi problemi, semplicemente, vennero a galla».
Possiamo fare un esempio?
«Durante gli anni di Stoner, media e avversari elogiavano il nostro sistema “anti-wheeling” e noi, in quanto impiegati Ducati, ci limitavamo a compiacerci di queste lodi. La verità, però, era un’altra e con l’arrivo di Rossi saltò fuori: tornato ai box dopo la sua prima uscita, Valentino chiese ai meccanici come mai fosse stato disattivato l’anti-wheeling, per poi scoprire che, in realtà, questa tecnologia su quella moto non era mai esistita. Le carenze della moto, poi, si traducevano con i risultati in pista, già dai primi test di Valencia nel 2010: basti pensare come nell’ultima gara – corsa qualche giorno prima sullo stesso circuito – Stoner con Ducati ottenne la pole position e arrivò poi secondo in gara. Nella prima giornata di test invece, mentre Stoner era sempre primo, in sella alla Honda però, Rossi su Ducati vagava intorno alla quindicesima posizione».
C’era tanta differenza tra i due?
«Valentino aveva una testa straordinaria: era capace di mettere in difficoltà tutti, anche chi era più forte di lui. Casey aveva un talento eccezionale nella guida, più di Valentino, ma faticava a reggere la pressione: ogni volta che si piazzava in griglia di partenza aveva la nausea, l’ansia lo mangiava vivo, voleva andare a casa. Anche questo lo ha portato al ritiro. Più forte di loro, secondo me, c’è solo Marquez».
Come mai?
«Perché è l’unione perfetta dei due: Marc unisce al talento di Stoner, la tenuta mentale di Rossi».
Tornando un attimo alla storia, con Rossi possiamo dire che iniziarono gli anni più bui di Ducati.
«Da quegli anni si iniziò a lavorare diversamente, in maniera frenetica. Non per scelta, ma per obbligo: se le cose non funzionano, cerchi di migliorarle subito. Se prima si testavano un certo numero di pezzi in un determinato periodo di tempo, in quegli anni si provò il doppio delle soluzioni nella metà del tempo. Chiaramente questa frenesia era tradotta nei risultati in pista. A fine 2012, dunque, ci fu un primo cambio, perché Filippo Preziosi (allora direttore tecnico) venne sostituito da Bernhard Gobmeier, uomo proveniente dal mondo Audi. Ma fu un anno abbastanza incasinato: non c’era una guida tecnica vera e propria, che sapesse dove indirizzare lo sviluppo. C’era una crisi gestionale».
La vera svolta si è avuta con l’arrivo di Dall’Igna?
«È arrivato tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014. Il suo più grande pregio è stato, appunto, quello di saper dare una direzione chiara alla squadra e spingere sullo sviluppo. Nei suoi primi anni si facevano orari assurdi e si è provato di tutto, anche sbagliando: tante tecnologie, magari, davano un grande vantaggio, ma anche grosse complicazioni per cui non valeva la pena rischiare. Tutto questo, però, ha dato i suoi risultati, permettendoci di avvicinarci a Honda e Yamaha, che fino al 2014 avevano corso in una categoria a parte».

Con il passaggio da Bridgestone a Michelin nel 2016, poi, ci fu un ulteriore miglioramento.
«Il passaggio alle Michelin è coinciso con quello al software unico, quindi erano due i fattori: prima del 2016 potevano esserci moto che avevano un buon equilibrio di ciclistica con le Bridgestone, ma con le nuove gomme Michelin, che erano completamente diverse nella frenata e nel grip, tali moto erano andate in crisi, rispetto ad altre che, invece, hanno invertito la propria rotta. I cambi di regolamento portano sempre a queste situazioni. Esempio lampante è il Mugello, dove sia Valentino sia Jorge hanno rotto il motore nello stesso weekend: sullo scollinamento, il motore finiva fuori giri. Mentre con il vecchio software tutto era sotto controllo, ora con il software unico se non venivano inseriti correttamente tutti i parametri, si incappava nella rottura del motore. Di fronte ai cambiamenti, se non si ha la prontezza tipica di Ducati, è normale che si vada incontro a problemi. Poi, via via, il gap tra i migliori e quelli più in difficoltà va sempre diminuendo: basti pensare a quanta potenza in più avesse il motore Ducati fino ad appena due anni fa rispetto alla concorrenza, mentre ora il gap è molto ridotto. Se il regolamento è stabile, è normale che con il tempo ci si migliori e, quindi, il livello delle varie Case si appiattisca. A questi fattori (gomme Michelin e software unico), si aggiunge anche il contributo delle ali, portate da Ducati nel 2015, poi regolamentate nel 2017, che hanno dato un ulteriore vantaggio».
Nelle ultime due stagioni è successo lo stesso con l’abbassatore?
«Sì, anche quello è stato introdotto da Ducati e finché gli altri non sono stati in grado di adattarsi, ha portato un vantaggio significativo. A volte, però, gli avversari nemmeno provano a raggiungerti, ma cercano di penalizzarti, come nel caso dell’abbassatore anteriore, introdotto nei test di Sepang del 2022: l’abolizione dell’abbassatore anteriore dal 2023 è stato venduto come un discorso economico, perché le case sarebbero state chiamate a ulteriori sforzi durante un periodo già difficile. In realtà era per mancanza di volontà di impiegare tempo e risorse nello sviluppo di nuove tecnologie già sviluppate dalla concorrenza. Meglio spendere tempo e denaro per qualcosa che gli altri non hanno e prendersi il vantaggio. I giapponesi in questo sono molto lenti ed ecco che per loro è molto più facile opporsi alle nuove tecnologie».
A proposito di sviluppo, da quando hai iniziato a lavorare in Ducati sono passati diciannove anni: quanto è cambiato?
«Il lavoro in sé, è cambiato poco: si cerca sempre di trarre il massimo con ciò che si ha a disposizione. Così era nel 2002 e così è oggi. Sicuramente sono cambiati parecchio i software e gli algoritmi, perché oggi si hanno anche molti più dati e parametri che nel 2002 nemmeno esistevano: banalmente, l’angolo di piega della moto prima veniva solamente calcolato, quindi era una stima, che, per quanto accurata, rimaneva una stima. Oggi, invece, siamo in grado di rilevarla direttamente grazie alla piattaforma inerziale. Al giorno d’oggi abbiamo anche la possibilità di utilizzare sulle nostre moto di sviluppo delle ruote strumentate che ci permettono di rilevare la coppia trasmessa alla ruota stessa. A questo si aggiunge anche l’esperienza acquisita in pista: al banco prova non si può prevedere tutto ciò che accade realmente sul tracciato, come per esempio la presenza di un avvallamento in piena curva, che può causare un high-side. Tutto ciò ci permette di avere tantissime informazioni e sempre più precise, in modo da rendere sempre più complesso l’algoritmo e, quindi, migliorarlo sempre più».

Dal 2009, però, hai abbandonato lo sviluppo e ti sei dedicato al ruolo di capotecnico.
«Ho iniziato con piloti diversi ogni anno, per poi lavorare per 6 anni di seguito con Iannone, quando è arrivato in MotoGP con Pramac. Cercavo delle sfide nuove e volevo vivere maggiormente le gare. A volte invidio un po’ il team dello sviluppo, ma solo durante i periodi delle gare asiatiche, per esempio, in cui fai diverse settimane consecutive lontano da casa. Le sensazioni che si provano durante il weekend di gara sono imparagonabili».
A Proposito di Iannone, com’è stato lavorare con lui?
«Andrea ha avuto la sfortuna di arrivare in MotoGP nel 2013, l’anno peggiore per Ducati e, invece, un anno glorioso per Marquez – con cui si era giocato il titolo in Moto2 l’anno precedente – che ha conquistato il suo primo titolo mondiale nella classe regina. Per uno come Andrea, molto sicuro di sé, delle sue capacità ed orgoglioso, è stato difficile da accettare. Fondamentalmente è un ragazzo buono, ma questo suo carattere è stato un po’ la sua “croce e delizia”: a volte lo ha spinto a dare più del 100% per vincere; in altri casi, non gli permetteva di fare autocritica, quindi di migliorarsi. Le sue relazioni sentimentali, poi, hanno forse peggiorato ancora di più la situazione: ritrovarsi sulle copertine di riviste ed essere riconosciuto nella mondanità non ha fatto altro che alimentare queste sue caratteristiche. Il passaggio in Suzuki, poi, è stato un errore, per sua stessa ammissione: se n’è andato nell’anno in cui Ducati è stata in grado di fare un ulteriore step in avanti, rifiutando una moto per cui sarebbe stato il primo pilota, il punto di riferimento per lo sviluppo. In più, è passato in un team in cui ha trovato un modo di lavorare che, da subito, non gli piaceva e diametralmente opposto rispetto alle esperienze passate».
Pensi che, se fosse rimasto in Ducati, la sua carriera sarebbe proseguita diversamente?
«Non è detto. La Suzuki per lui è stato, sicuramente, un buco nell’acqua, ma la storia non si fa con i “se”: non c’era la certezza che con Ducati avrebbe vinto. Ci sono infinite variabili. Basti pensare a come la carriera di Dovizioso sia cambiata con l’uscita di Iannone dal box: con l’arrivo di Lorenzo, Dovi, vedendo tutti i problemi del suo nuovo compagno di squadra, ha avuto una grandissima iniezione di autostima che gli ha permesso di raggiungere poi tutte le vittorie e i podi che ha ottenuto. Passare da inseguire il tuo compagno a batterlo ogni domenica, se in più ci aggiungi che è un cinque volte campione del mondo, ti da molta fiducia in te stesso. Ma, anche in questo caso, se Iannone fosse rimasto, non possiamo sapere come sarebbe andata».

Con Iannone, poi, sei passato anche in Suzuki. Quanta differenza c’è?
«Ci sono diversi aspetti da considerare: primo su tutti, il fatto che i giapponesi sviluppano le loro moto in Giappone, per poi, però, farle utilizzare da team gestiti da europei. Quello che accade è che un team ufficiale, all’atto pratico, viene trattato come un team satellite. Se un tempo la differenza fra team ufficiali e clienti stava solamente nei pezzi a disposizione (per esempio, uno scarico che ti da qualche cavallo in più), adesso è diverso: è necessario avere a monte gente fornita e preparata dall’azienda. In Suzuki ho trovato un team composto per la maggior parte da ingegneri italiani, di provenienza Ducati, che però non erano stati formati dall’azienda Suzuki e non avevano a disposizione gli stessi strumenti dei loro pari negli altri team ufficiali. Un altro esempio può essere l’esperienza di Dovizioso in RNF dell’ultima stagione: sebbene avesse a disposizione una moto ufficiale, il team intorno a lui non godeva degli stessi strumenti o dell’appoggio della casa madre. Se una volta contavano molto i pezzi con cui era composta la moto, oggi conta molto di più il lavoro del gruppo».
E a livello relazionale?
«Cambia molto: spesso i team giapponesi, infatti, si affidano agli europei per la gestione dei team perché loro non sarebbero in grado di farlo. Quando un pilota ha un brutto turno e torna al box infuriato e inizia a urlare, i giapponesi non sono in grado di gestirlo. Hanno paura ancor prima di dover affrontare situazioni del genere, figuriamoci se dovessero viverle».
In Suzuki, poi, hai trovato un ambiente quasi opposto a quello a cui eri abituato, per quanto riguarda lo sviluppo. Giusto?
«Suzuki aveva il pregio di avere una moto molto equilibrata, che si comportava bene in diverse situazioni. Nel momento in cui ci sono stati dei cambiamenti, come le ali, gli abbassatori, modifiche al software, ho assistito a un’impressionante flemma. L’opposto, appunto, di Ducati, specialmente negli anni della gestione Dall’Igna. Nel 2017, quando vennero bandite le ali, per esempio, in Suzuki decisero di tornare alle carene tradizionali, archiviando il capitolo “ali”, mentre Ducati si presentò ai test con delle carene con appendici aerodinamiche enormi. Soltanto a Motegi, al quindicesimo round del mondiale, Suzuki portò una nuova carena con le ali inglobate come da nuovo regolamento. Un ritardo piuttosto consistente. Lo stesso è accaduto con l’abbassatore, per esempio».
Come hai deciso di lasciare Ducati e intraprendere questa nuova avventura?
«Iannone mi chiese di andare con lui e io accettai, perché in quel momento della mia vita volevo provare l’esperienza di lavorare in un team giapponese. In più, nel mio ruolo, il rapporto con il pilota è una componente essenziale e, in quel caso, era già solido, dunque è stato facile decidere. In più, come già detto, in Suzuki c’erano diversi ingegneri con cui avevo lavorato in Ducati, quindi sarebbe stato un passaggio in una seconda casa».
E quando poi Iannone ha deciso di passare in Aprilia? «In quel caso rifiutai, per diversi motivi: prima di tutto, volevo rimanere in Suzuki per più anni, per completare l’esperienza in un team giapponese. Secondo aspetto, la moto dell’Aprilia non era competitiva come lo è oggi e, conoscendo il carattere di Andrea e la voglia di vincere, sarebbe stato difficile da gestire. Poi, cambiando squadra seguendo un pilota di team in team, prima o poi, si rimane a piedi perché viene a mancare il rapporto che si instaura negli anni con colleghi e membri del team».

A fine 2019 hai deciso di tornare in Ducati, con Zarco. Che pilota è?
«Johann subisce parecchio la pressione, che si mette spesso anche da solo: con il passaggio dalla KTM all’Avintia, in sella a una Ducati due anni più vecchia rispetto a quelle ufficiali è riuscito a strappare, alla terza gara, una pole position e poi un podio. Riconquistato un pò di autostima, da lì ha iniziato a volere sempre più risultati, ottenendo però il contrario: nel 2021 pur non avendo mai vinto, ha fatto una prima metà di stagione strepitosa, con ottimi risultati, seguita da un finale tremendo, pieno di errori, cadute, a causa della pressione dei media e, soprattutto, sua. Da questo punto di vista, lui e Andrea erano ai poli opposti: mentre Iannone era estremamente sicuro di sé, Johann è uno che si mette sempre in discussione. A volte troppo. A questo si aggiungono poi anche le situazioni personali: siamo venuti a sapere dopo che in quel periodo – nel 2021 – stava vivendo una situazione difficile in casa, con la sua ragazza. Questa parte del nostro lavoro, purtroppo, non può essere controllata ma ha ruolo fondamentale. Da un certo punto di vista, è come se ci fosse richiesto di essere anche un po’ psicologi».
Con lui, poi, hai lavorato in Pramac: oggi quanta distanza c’è tra team ufficiale e team satellite?
«Una volta potevano esserci grosse differenze, ma oggi si sono appiattite parecchio: basti pensare che in Pramac, nelle ultime due stagioni, abbiamo avuto moto ufficiali e ottimi risultati. Di fatto, le uniche differenze sono a livello gestionale: per eventuali aggiornamenti viene data precedenza ai piloti ufficiali. Ma oggi, un pilota di un team satellite, se forte, può tranquillamente vincere, come dimostrato da Morbidelli, Quartararo e Bastianini. In più, anche le aziende hanno capito quanto conti investire sui team satellite come fonte di dati: avere più moto competitive in pista ti permette di rilevare una maggiore quantità di informazioni nella medesima situazione, senza dover fare affidamento solamente ai test o al banco prova. Oggi, poi, Ducati ha deciso di impostare la propria azienda con un approccio ben preciso: prendere dei ragazzi giovani e fornirgli tutto il necessario per vincere e crescere senza pressione, a parità di condizione, in modo da capire subito il valore del pilota. Il problema però è dei piloti stessi, che si lamentano delle differenze tra le moto ufficiali e quelle satellite, sostenendo di essere svantaggiati e non mettendosi in discussione. Solo chi conosce bene le moto e le loro differenze può davvero valutare quanto i loro risultati dipendano dalla moto».

Da quest’anno inizi una nuova sfida con Enea Bastianini. Avete già avuto modo di lavorare insieme a Valencia. C’è già sintonia?
«Abbiamo avuto modo di passare del tempo insieme nei giorni tra la gara di Motegi e quella di Philip Island, prima del test di Valencia di novembre: il lavoro da fare durante quei turni era già stato pianificato, perché Enea veniva da un ottimo weekend qualche giorno prima e le due moto – quella con cui ha gareggiato e quella che ha provato nel test – cambiavano molto poco, quindi già avere queste sicurezze e riuscire da subito a girare su tempi buoni, da più serenità. Una situazione completamente diversa da ciò che avviene nei weekend di gara, ma le prime sensazioni sono state sicuramente positive: è un ragazzo giovane e, a differenza di altri, è molto “pane e salame”, poco montato. Ha sempre piacere a mangiare tutti insieme, vuole creare il gruppo, aspetto molto positivo. Vedremo come inizierà il campionato e se arriveranno i risultati: purtroppo questi sono fondamentali nella creazione del rapporto tra il capotecnico e il pilota. Nonostante il modo di lavorare sia lo stesso, sia che tu vinca, sia che tu finisca ultimo, quello che conta, alla fine, è sempre solo il risultato che porti a casa. Poi possono esserci casi di piloti con cui riesci a creare un bel rapporto a prescindere dai risultati, ma l’importante è sempre quello. Nel caso di Enea sarà fondamentale vedere come gestirà la pressione: se lo scorso anno, senza alcuna pressione né aspettativa, è riuscito a vincere quattro gare e arrivare secondo in altre due, nel Team Gresini, ora che si trova nel team ufficiale bisogna vedere come si comporterà».
Enea fa coppia con Bagnaia, contro cui ha già lottato per la vittoria in diverse occasioni nella scorsa stagione. Secondo te è rischioso avere nello stesso team due piloti che possono giocarsi il Mondiale?
«Potremmo stare a discuterne per ore, ma secondo me, se un pilota ha un compagno di squadra che può suonargliele, viene spronato a fare meglio. Se, per esempio, si arriva su una pista e il weekend inizia male, per il team ci sono due opzioni: o è la moto, oppure è il pilota. Se hai due fuoriclasse, puoi capire subito di chi sia la colpa. Per me è più redditizio avere due galli nel pollaio. In altri casi, per mancanza di risorse, si punta solo su un pilota: si dedica maggiore attenzione ai suoi bisogni, però si hanno anche meno termini di paragone».
Riguardo alla moto, invece, quanto è cambiata rispetto allo scorso anno?
«Innanzitutto, posso dire che quanto si cambia la moto rispetto all’anno precedente è inversamente proporzionale a quanto sei competitivo: banalmente, tra il 2014 e il 2015 la moto è cambiata sicuramente di più di quanto non sia cambiata quest’anno rispetto allo scorso. Questo non accade perché finiscono le idee, ma perché una volta che si inizia a vincere tanto, poi si procede un po’ con i piedi di piombo. Si cerca di sbagliare il meno possibile. Non si ha più l’urgenza di tentare delle migliorie per portare a casa dei risultati: ora, se vengono apportati dei cambiamenti, lo si fa perché si è certi di portare delle migliorie. L’abbassatore, in questo senso, è stato un azzardo: provare pezzi nuovi richiede l’impiego di risorse e tempo, quindi anche di errori».
A inizio stagione, in diverse occasioni, sono stati ottenuti risultati al di sotto delle aspettative anche per questo motivo?
«Esattamente. Alcune gare sono state buttate perché si aveva ancora troppa poca esperienza su quel determinato strumento, cosa che Ducati non può più permettersi. Per quest’anno, infatti, è stato deciso che per ogni pilota verrà portata una moto vecchia e una moto nuova: questo perché se su alcuni circuiti, magari, le migliorie della moto nuova danno i loro risultati, su altre possono emergere delle criticità mai affrontate prima. Inoltre, la moto dello scorso anno differisce poco dalla nuova, se non in alcuni miglioramenti apportati alla guidabilità del motore».
Da quest’anno c’è la novità della Sprint Race. Cosa ne pensi? «Cambierà moltissimo, però non so ancora come. Il risultato delle qualifiche sarà ancora più importante, perché inciderà su entrambe le griglie di partenza. Verrà avvantaggiato maggiormente chi solitamente fa della partenza il suo punto di forza e chi riesce a gestire meglio le gomme nei primi giri di gara, mandandole correttamente in temperatura. Adesso, inoltre, si saprà già dal venerdì se il pilota partirà tra i primi dodici o più indietro. Sicuramente cambierà la strategia dei team e dei piloti. Conterà molto anche la gestione dello stress. Non si potrà più passare tanto tempo a provare durante il weekend».
Bastianini è uno che ha fatto della rimonta la sua arma vincente.
«Dovrà cambiare approccio: molte delle sue vittorie sono arrivate in rimonta, ma non si potrà puntare più su una messa a punto della moto che dà i suoi frutti negli ultimi giri di gara. Anzi, bisognerà forse osare maggiormente sacrificando un po’ nella parte finale. Come novità in sé, non mi dispiace. Mi preoccupa che questo format possa penalizzare il mio pilota».