TRATTO DA SLICK #9 – uscito nell’ottobre 2020
Nella primavera del Duemila, Noboru Yamashita era insolitamente inquieto: l’ingegnere chiamato a decidere le caratteristiche del motore della futura RC211V si chiuse all’interno di una stanza super protetta all’interno dell’R&D Honda, a nord di Tokyo, e iniziò a leggere attentamente il regolamento definitivo della nuova classe regina dei Gran Premi. Lo aveva ricevuto dalla FIM subito dopo l’approvazione, avvenuta il 10 aprile 2000.
Noboru Yamashita era agitato perché aveva una sola certezza – il passaggio dai 2 ai 4 tempi era un momento solenne, e bisognava lasciare il segno – però non c’era un’idea precisa sulla quale discutere con i colleghi motoristi. Ecco perché decise di studiare il regolamento definitivo con estrema attenzione, a costo di rileggerlo decine di volte: cercava l’ispirazione per concretizzare alcune sensazioni che avvertiva ma che non riusciva ad esprimere con chiarezza. Pensò che in quel Regolamento dovevano per forza esservi delle potenzialità interessanti, quindi spettava agli ingegneri come lui trovare qualcosa di innovativo.
Mentre si soffermava sulle singole parole, ad un certo punto Yamashita si ricordò di un’affermazione che pochi giorni prima aveva udito da un collega della produzione: «Un V5, ecco che motore ci vorrebbe!». Mentre leggeva il regolamento, ripensando alla frase del collega, inizio ad emettere dei suoni del tipo “mmm…”, ripetendo a voce bassa «un cinque cilindri… mmm…».
In quel periodo Yamashita era lontano da quella posizione, infatti per le sue prime riflessioni era partito dallo schema “3 cilindri in linea”, ritenendolo una buona soluzione in termini di equilibrio nel rapporto tra potenza e peso. Poi aveva studiato la soluzione “4 in linea”, e all’improvviso il V3 non lo affascinò più come prima: stava infatti valutando lo schema a V, con 4 cilindri. Ma il collega del “prodotto” che all’improvviso aveva parlato di un “V5”, anche se si stava riferendo ad una moto stradale, aveva suscitato in lui altri dubbi.
«Il V5 è davvero la soluzione migliore?» chiese ai colleghi, durante una riunione. Perché capì che le settimane passavano, e sul suo tavolo c’erano ormai tutte le proposte possibili: era giunto il momento di prendere una decisione. «Mettere un cinque cilindri nel telaio di una moto da Gran Premio mi sembra innaturale» spiegò, «perché potrebbe creare diversi problemi ai telaisti, così come dal punto di vista tecnico».
Continuò a pensarla così per diversi giorni, mentre teneva sempre vicino il testo del Regolamento Tecnico: sentiva che continuando a rileggere quelle pagine sarebbe emersa l’idea risolutiva. Infatti, all’improvviso, arrivò. Le parole che lo colpirono furono “peso minimo 145 kg per quattro e cinque cilindri”. All’improvviso, Noboru Yamashita ebbe un sussulto: «Sì, possiamo fare un cinque cilindri restando nello stesso limite di peso di un V4!».
In generale, più cilindri significa più potenza, pertanto il Regolamento Tecnico impone di solito una maggiore limitazione di peso minimo per i motori a più cilindri, al fine di garantire una normativa il più possibile equa. Però in questo nuovo regolamento i motori a quattro e cinque cilindri erano raggruppati nello stesso peso minimo, quindi Yamashita aveva individuato un vantaggio in termini regolamentari.
Allora convocò un’altra riunione, mostrando un atteggiamento completamente diverso: «Forse abbiamo trovato la soluzione!», esclamò, poi iniziò a spiegare ciò che all’improvviso era apparso nella sua mente.
Appare illogico che il Regolamento Tecnico stabilisse gli stessi limiti di peso per i motori a 4 e 5 cilindri, perciò è giusto chiedersi perché fu scritto ”quattro cilindri e cinque cilindri” e non “quattro e più cilindri”. Già, perché? Chi oserebbe scegliere una specifica del motore così impegnativa, cioè eccessivamente frazionata? Dunque col tempo è emerso che il legislatore tecnico della MotoGP potrebbe avere indicato una strada nella speranza e curiosità di vedere chi avrebbe avuto il coraggio di seguirla. Insomma, fu creata una situazione per stimolare la fantasia degli ingegneri.
Noboru Yamashita ha avuto così il merito non tanto di avere deciso di progettare un V5, ma di avere decriptato un messaggio che si nascondeva tra le righe: era uno stimolo a fare qualcosa di nuovo, di grandioso e di memorabile.
Da parte sua, fu un atto di coraggio. Ma la tradizione vuole che un ingegnere dell’R&D Honda non possa tirarsi indietro di fronte a nulla. Ecco perché Yamashita capì che avrebbe dovuto distinguersi.
Tra i Costruttori era ormai diffusa l’opinione secondo cui occorreva sviluppare nuove tecnologie da applicare alla produzione di serie, ed è il motivo per cui quasi tutti i capi progetto delle aziende concorrenti scelsero specifiche tecniche convenzionali, cioè V4 oppure “4 in linea” (solo l’Aprilia optò per il “V3”): sono utili a trasferire facilmente una parte di tecnologia sui modelli di produzione. Invece l’R&D Honda accettò l’onore e l’onere di progettare qualcosa che non si era mai visto, almeno in quel periodo storico.
Il motore a cinque cilindri apparve subito difficile da trasferire su una “stradale” – impone di affrontare più difficoltà tecniche rispetto al quattro cilindri – tuttavia si decise di procedere comunque, perché la dirigenza era stata chiara: bisognava individuare nuovi scenari tecnologici, in linea con la grandiosa tradizione dei motoristi Honda, iniziata negli Anni Sessanta.
GIAPPONE COMPATTO GIÀ NEL 1998
Nei 53 anni precedenti l’avvento della MotoGP, nella classe regina dei Gran Premi il limite della cilindrata del motore era stato sempre di 500cc, sia per i “2 tempi” che per i “4 tempi”. Il motore a 2 tempi è più leggero e potente, motivo per cui ha dominato per più di trent’anni (cioè dagli anni Settanta ai Duemila) però mentre si stava avvicinando il ventunesimo secolo il mondo ha iniziato a cambiare sensibilmente: i Costruttori sono diventati più consapevoli dell’importanza dell’ecologia, ed è stato così anche per il motociclismo. I controlli delle emissioni divennero più severi, si accolse con favore una migliore efficienza del carburante, il che penalizzava il motore a 2 tempi. Fu quindi inevitabile il passaggio (anzi, il ritorno) alla tecnologia dei quatto tempi.
Nel 1998 l’associazione dei Costruttori coinvolti nei Gran Premi si chiamava GPMA (predecessore dell’attuale MSMA). Insieme a Dorna e FIM, la GPMA iniziò a comunicare ai suoi membri l’intenzione di programmare una serie di meeting per raccogliere idee sulla nuova categoria e in Giappone si organizzarono subito: Honda, Yamaha e Suzuki (i tre Costruttori nipponici impegnati nei GP) pur essendo già piuttosto influenti tentarono di diventare una forza insuperabile. Decisero perciò di compattarsi.
Il primo passo fu l’organizzazione di una riunione, in Giappone, prima di andare al meeting collegiale. Avvenne nell’agosto del 1998. Fu così importante e segreta, che gli venne dato perfino un nome in modo da consegnarlo ai posteri: “Hamamatsu meeting”.
Si incontrarono lì perché l’area di Hamamatsu è il fulcro del motociclismo giapponese: vi hanno la sede centrale Yamaha e Suzuki, ma vi sono anche le origini della Honda (è la città natale di Soichiro Honda).
Nella riunione di Hamamatsu, nell’agosto del 1998, i giapponesi decisero di essere aggressivi e per questo si accordarono per proporre in modo compatto di non fissare alcuna limitazione al numero dei cilindri, né alla cilindrata!
Quando misero queste proposte sul tavolo, in Europa, tutti impallidirono. Si irrigidirono anche Dorna e FIM, perché la mancanza di limiti avrebbe comportato investimenti enormi, e questo andava contro i loro piani: uno degli obiettivi della MotoGP era quello di attirare il maggior numero di Costruttori possibile, quindi non volevano spaventare chi stava meditando di entrare, oppure che avrebbe potuto farlo in seguito.
Nessuno era d’accordo con l’idea di non fissare alcuna limitazione riguardo alla cilindrata. Così vennero stabiliti dei limiti, ma si può comunque affermare che le basi del Regolamento Tecnico vennero poste nel meeting di Hamamatsu: la compattezza con cui le tre Case nipponiche si presentarono di fronte agli occidentali fece capire a Dorna e FIM che la rivoluzione dei GP doveva essere l’occasione per favorire la fantasia e il coraggio dei Costruttori. E la Honda era pronta.
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