TRATTO DA SLICK #14 – uscito nell’agosto 2021
BORGO PANIGALE – È tutto nella premessa: «Sono arrivato in Ducati alla fine del 2013, e in quel momento tutti mi vedevano come il principale nemico: perché venivo dall’Aprilia, dove lottavo contro la Ducati in Superbike. Ecco perché ho investito i primi 6 mesi non per lavorare ad un progetto ma per capire le persone, e per farmi capire da loro. Del resto è stupido partire, se non capisci chi sa fare questo e chi quell’altro… e se non sai di chi ti puoi fidare».
Gigi Dall’Igna è un combattente di razza. Riesce ad essere generale e soldato al tempo stesso, sa mettere arte e genialità al servizio di un coraggio assoluto: per questo si esalta quando gioca al livello estremo, cioè dove per vincere tutto bisogna essere disposti a rischiare tutto.
Approdò in Ducati, dopo un addio all’Aprilia che destò parecchio clamore, in nome di una nuova missione: riorganizzare Ducati Corse nel suo senso più ampio. E ha raggiunto l’obiettivo, portando una nuova visione, proponendo una diversa metodologia di lavoro e anche di pensiero.
Ricordando i primi passi fatti a Borgo Panigale, fa capire bene quale fosse lo scenario alla fine del 2013 pur senza citare nessun nome: «Noi, all’inizio del 2014, abbiamo pensato solamente alla MotoGP, detta onestamente, perché quello era un progetto estremamente importante: Ducati veniva da anni un po’ difficili, e con quel progetto ci giocavamo tutto. Anzi, mi giocavo tutto io! Se non avesse funzionato, o anche se fosse andato “così-così”, sarebbe stato complicato per me e per tutta la Ducati».
Però quelli sono i momenti in cui si può fare la storia, ed è stato così anche questa volta.
«Di certo bisognava fare qualcosa di diverso, infatti i rischi che ci siamo presi in quel momento, tutti quanti, sono stati veramente incredibili. Posso assicurare che non sono situazioni semplici».
Ti riferisci all’aspettativa, alla pressione?
«Tutta la situazione. Bisogna fare una premessa, sempre restando in quel periodo: quando cominciano i guai, poi i problemi te li vai anche a cercare, e questo può capitare a qualsiasi azienda. Negli ultimi anni prima che io arrivassi in Ducati, con l’obiettivo di rendere il motore più guidabile avevano cominciato a fare cose per cui aveva anche perso molti cavalli. Per cui tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 ci si stava veramente avvitando in qualcosa da cui è difficile uscire».
Quindi la decisione di ricreare prima un gruppo unito, e poi partire, è un po’ il segreto?
«Sì, e per fortuna è andata bene. Secondo me è stato giusto partire dal lato umano, cioè dalle persone e dal loro valore. Le moto sono fatte dalle persone, e la prima cosa che deve fare chi approccia un reparto corse, con un progetto nuovo, è conoscere quelle persone».
Nella tua gestione è apparso subito chiaro che volevi dare importanza al veicolo in generale, quindi hai rotto la tradizione Ducati che era molto “motoristica” e ben poco “telaistica”.
«Io, per vari motivi, voglio che le riunioni in cui pianifichiamo la progettazione di nuovi modelli siano il più allargate possibile. Perché la cultura è importante. Bisogna diffondere la cultura della moto in tutto il reparto corse, perciò anziché fare riunioni separate per il motore, per la ciclistica, per l’elettronica, io voglio che si discuta tutti insieme. Se hai riunioni allargate diffondi la cultura a 360 gradi, quindi chi fa il telaio comincia a sentire parlare anche di concetti motoristici, chi fa l’elettronica sente i problemi dei veicolisti, ecc… ».
La ciclistica era così indietro, quando sei arrivato in Ducati?
«È sicuramente vero che in origine il telaio era uno dei problemi principali della Ducati, però ripeto: la situazione si era complicata in un modo tale che nemmeno il motore riusciva ad esprimere le sue potenzialità. Diciamo infatti che, quando hai fatto il motore hai fatto anche la ciclistica: perché il telaio deve avvolgere il motore, e tante punti del motore sono fondamentali per la ciclistica. Ecco perché è importante che tutti siano allo stesso tavolo, quando si prendono le decisioni. Poi alla fine le deve prendere uno, ma bisogna sentire le opinioni di tanti».
Hai sempre fatto così?
«Sì, infatti gli spazi per le mie riunioni non bastano mai. Devo usare le sale più grandi, se serve vado a prendermi la sala riunioni della Presidenza, che è la più grande; ma sono andato anche in Auditorium, così come nel Museo Ducati dove c’è l’anfiteatro. Ho bisogno che le persone siano dentro la stessa stanza quando nascono le idee. Lo sottolineo di nuovo: la conoscenza e la cultura sono le cose che servono per fare una moto bene».
Quando è iniziato il progetto della “tua” Desmosedici?
«Abbiamo cominciato a pensarci nel giugno del 2014. Il motore è andato al banco nel gennaio 2015. Quindi in sei mesi abbiamo progettato e fatto tutto, e poi siamo andati a correre. Ecco perché parlo di rischi incredibili».
In effetti, andare ai test di febbraio con un motore andato al banco in gennaio…
«È per questo che il primo test del 2015, a Sepang, all’inizio di febbraio, l’abbiamo saltato. Nel secondo test, sempre a Sepang, siano andati con i limitatori molto bassi, cioè con il limite dei giri abbassato di 1500-2000 giri. Perché dovevamo cominciare a capire se anche la ciclistica era nata bene. Poi, a casa, abbiamo completato la verifica della durata del motore, e nel terzo test, in Qatar, siamo andati a piena potenza».
E poi subito la gara. Quindi, è vero: è stato grande rischio.
«E aggiungo che non avevano un secondo piano, non c’era nessun paracadute. Sì, abbiamo preso veramente tanti rischi».
Però in gara avete chiuso la gara con un secondo e un terzo posto. Forse i rischi erano calcolati…
«Siamo andati bene perché sono stati bravi tutti: il progetto è nato bene, ed è stato sviluppato bene. Ma quando, nel giugno del 2014, ho cominciato a dire che i tempi di realizzazione dovevano essere questi, quasi tutti mi guardavano quasi fossi un extraterrestre».
Il motore è stato declinato subito in un’altra versione, giusto?
«Da lì abbiamo realizzato una versione per la Superbike, e per la moto stradale. Il motore V4 effettivamente ha ereditato tutta la termodinamica della versione MotoGP. Anzi, sostanzialmente tutto il motore è veramente di derivazione MotoGP».
Quanti cavalli aveva la prima versione di nuova generazione, che partì con la MotoGP nel GP15?
«Diciamo che, all’inizio, abbiamo corso con circa 250 cavalli».
Beh, se si considera che la versione stradale del V4 ha 224 CV, non è che ci sia molta differenza.
«Appunto, questo dimostra che ha ereditato i concetti della MotoGP».
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MENO SVILUPPO, PIÙ SPETTACOLO
A proposto di sicurezza, esiste un’etica che dovrebbe spingere un progettista a dire: stiamo facendo andare questi ragazzi troppo forte? Le prestazioni delle MotoGP sono impressionanti, su certi rettilinei si viaggia ad oltre 360 all’ora.
«Un limite, prima o dopo, è giusto che venga fissato».
Quindi è un argomento sensibile anche per te?
«L’etica stessa dice che è opportuno non superare certi valori. Anche se non esiste un valore unico che non va superato, è vero che stiamo andando avanti oltrepassando costantemente i limiti precedenti e questa situazione prima o poi bisogna che qualcuno provi a sistemarla. Magari nei prossimi regolamenti».
Gabriele Conti sostiene che quando aumenti le prestazioni velocistiche, aumenti anche le prestazioni di tutto il resto, quindi una moto è sempre “preparata” ad affrontare i miglioramenti.
«Questo è vero, nel senso che gli impianti frenanti e tutto il resto vengono evoluti di conseguenza, perciò alla fine la moto resta sicura allo stesso modo. Però è anche vero che stiamo parlando di velocità in rettilineo, mentre ciò che rende pericolosa la moto è la velocità in curva».
Questo è vero.
«Il dato della velocità in rettilineo fa impressione, certo, ma è scorrelato dalla reale pericolosità della moto. È più pericolosa la velocità con cui di solito si cade quando si affronta la curva».
E pensare che una volta era l’uscita, il pericolo.
«Vero! Ma oggi è l’entrata. Perché l’high side, grazie all’elettronica, adesso viene almeno limitato. Invece la fase critica è l’inserimento e qui bisognerebbe fare qualcosa».
Non si potrebbe adottare l’ABS, visto che ormai ce l’ha anche gli scooter?
«Questo è un motivo solamente politico, cioè legato ai costi di sviluppo. Il mondo della moto è, se si può dire, un mondo relativamente povero, se confrontato ai nostri cugini delle auto. Per fare stare in piedi un Mondiale bisogna fare in maniera che i costi necessari a partecipare (per i Costruttori e i team) debbano essere ragionevoli per il nostro mondo; che non è quello dell’auto. Allora devi darti delle limitazioni tecniche, che sono anche arbitrarie ma servono a limitare i costi di viluppo. È stato deciso che le sospensioni e i freni devono stare fuori dallo sviluppo, quindi sono rimasti fuori».
Per sviluppare un ABS Cornering su una moto stradale, così come per le sospensioni attive, un’azienda spende centinaia di migliaia di euro. Pensando che su una MotoGP si potrebbe persino immaginare un ABS che agisce addirittura in base ad ogni tipo di curva della pista, perché ancora non viene usato?
«È solo questione di deciderlo, cioè di allocare le risorse a quel sistema piuttosto che ad altre cose».
Tipo?
«Ad esempio, piuttosto che al cambio “Seamless”, o altre cose del genere».
Qual è la verità, quindi?
«La verità è questa: con la tecnologia che abbiamo già sviluppato per l’anti-spin, verrebbe relativamente facile fare un ottimo sistema di frenata assistita».
Bene, vuol dire che “qualcuno” non vuole. Non è che “qualcuno” – la Dorna, tanto per non fare nomi – ha deciso che nessuno deve andare troppo avanti nello sviluppo perché altrimenti le moto non restano più cose vicine e allora i diritti TV non si vendono a prezzi alti?
«Beh, evidentemente anche questo fa parte del rendere questo sport attrattivo per tanti Costruttori. Perché se i Costruttori sono relativamente vicini, come prestazione, è chiaro che è più facile entrare in MotoGP. Pensiamo alla 500 due tempi, verso la fine della sua storia: era molto più triste da questo punti di vista, perché c’erano pochissimi Costruttori».
Anche nel 2011 c’erano solo tre Case in MotoGP.
«E adesso sono sei. Un motivo ci sarà».
Certo: le moto vanno più o meno uguali. E non può essere un caso…
«Tieni presente questo: più tieni costante il regolamento nel tempo, più è facile uniformare. Siccome il regolamento attuale è sostanzialmente analogo da tanto tempo, è più difficile per i Costruttori trovare delle possibilità di aumentare le prestazioni in maniera significativa. Se invece inserisci delle discontinuità, come fanno in Formula 1 – dove ogni 2-3 anni inseriscono una modifica rilevante – è chiaro che aumenti la disparità tra i vari Costruttori. Certo, i costi però aumentano: chi ha più risorse ha più possibilità di fare la differenza».
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