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TRATTO DA SLICK #13 – uscito nel giugno 2021

A sentire lui, che è stato il responsabile del design e in parte del concept, quella della RSV4 è prima di tutto una storia di passione e di sentimento. Una faccenda di cuore, orgoglio, dedizione, spirito di corpo… e di cibo! 
«Di giorno litigavamo, la sera andavamo a cena, tutti insieme, e ci compattavamo; spesso le decisioni importanti le prendemmo proprio lì, al ristorante». 
Argentino di nascita, italiano di origini, uomo di mondo per cultura ed esperienze, Miguel Galluzzi è un top designer nell’industria della moto eppure il sangue torna a ribollire nelle vene quando parla della RSV4 e degli eventi di cui anche lui fu protagonista: «Era il periodo in cui si discuteva del futuro della 250 nei GP, e lì l’Aprilia andava forte. Ma questa azienda non aveva mai vinto nei quattro tempi, quindi fu una sfida importante. Quando l’R&D e il Racing ci diedero le specifiche, e iniziai a pensare al tipo di moto che ci serviva, dissi a me stesso e poi a tutti quanti: ora dobbiamo avere il coraggio di sfidare noi stessi, e di fare qualcosa di diverso. E allora stringemmo un patto d’acciaio, tra di noi: saremmo rimasti uniti per la missione, cioè portare l’Aprilia a vincere anche nel mondo delle quattro tempi». 
Oggi Miguel Galluzzi si sente ancora un soldato in battaglia, «perché devi avere sempre dei progetti, se no ti rilassi troppo», però ammette che «la moderna tecnologia mi permetterà tra un po’ di realizzare il mio sogno: lavorare in spiaggia, sotto l’ombrellone. Ho già fatto le prove generali durante la pandemia, che ha picchiato forte anche qui». E “qui” significa California del sud, cioè la Los Angeles Area dove lui dirige il Piaggio Advanced Design Center (PADC) con sede a Pasadena, un’ora di auto dalla leggendaria costa californiana scolpita dalla potenza dell’Oceano Pacifico.

Miguel Galluzzi è uomo robusto, di quasi due metri. È simpatico, spontaneo e passionale come gli uomini e le donne della sua città, Buenos Aires, ma anche come gli italiani con cui ha un legame forte. Parla l’italiano vero, cioè moderno e con parolacce o maledizioni incluse, del resto ha vissuto in Italia per più di venti anni e ogni giorno si confronta con i colleghi dell’Aprilia, e del Gruppo Piaggio. Dell’Italia possiede molto, e certamente ha assorbito quella particolare (e nostrana) cultura del cibo, visto anche come momento rilevante per le relazioni personali e professionali. Ma anche come piacere e anti-stress.
«Lo sai che il design della RSV4 l’abbiamo concepito in una pizzeria vicino a Noale? Sì, mi piaceva moltissimo andare lì, la sera, dopo il lavoro, con i colleghi e i collaboratori».
L’italianità è presente anche nel suo approccio all’arte, al gusto, alla bellezza. E ai motori. 
«Quando ci mettemmo a disegnare la RSV4 pensai alla bellezza femminile. Allora ho detto: facciamole un bel “davanti” e un bel “posteriore”, quello che c’è in mezzo verrà da solo. Quindi il frontale doveva possedere uno sguardo bello e aggressivo, per attrarre; il codino lo vedevo come dei bei fianchi e, insomma, come un bel sedere! Ed è venuta fuori una moto bellissima».
Per capire la RSV4 bisogna seguire Miguel Galluzzi nelle sue atmosfere un po’ surreali, nella sua immaginazione, nel suo concetto di bellezza basato su eleganza ed essenzialità.
«Eravamo al ristorante (appunto, e dove se no?!): a tavola eravamo io, Romano e Gigi (Dall’Igna). Ad certo punto ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: “Partendo da zero, abbiamo la possibilità di fare una moto che, quando l’avremo finita, sarà vincente e aprirà una nuova era». Ed è così che saltò fuori la storia della sfida: «Io ho detto: “sfidiamoci!”. Dobbiamo sfidare noi stessi, per fare qualcosa di veramente diverso, che adesso non c’è. E dobbiamo restare uniti!».

Secondo Miguel Galluzzi, questo è stato il segreto del successo della RSV4: l’aver resistito, l’aver superato le liti, avere agito con una squadra. «La sfida fu questa: ci allineiamo tutti, lavoriamo nella stessa direzione, con un solo obiettivo».
Perché fu una sfida? Non dovrebbe essere normale?
«In Italia, mica tanto. Infatti avvenne un’autentica rivoluzione: un’azienda italiana si mise a lavorare in modo univoco, cioè tutti come fossero uno solo. Io li conosco, gli italiani – ne ho viste di tutti i colori, nelle aziende italiane in cui ho lavorato – e non mi era mai capitato che tutti si accordassero per lavorare uno a fianco dell’altro. Roba da giapponesi, ma quelli erano Italiani!». 

Interno SILCK #13 pagine 36 - 37

L’unità del gruppo, tutelata anche da Albesiano, Calò, Dall’Igna e gli uomini chiave del progetto, è stata fondamentale per assecondare la grande ambizione di tutti: «In quel momento la sfida era già tosta di suo, perché bisognava risolvere tutti i problemi che sorgono quando vuoi fare una moto bella e che vada anche forte, ma noi ne creammo un’altra: decidemmo di inventare qualcosa di nuovo in un mondo, la Superbike, in cui era stato fatto di tutto. Per fare quello che abbiamo fatto noi, in quel momento storico – penso all’azienda, che stava riorganizzandosi – ci vogliono i “coglioni” (sì, usa proprio questo termine) ma servono anche una visione, una certa ampiezza di vedute».

Ed ecco il patto…
«Ci organizzammo in modo che i tre settori coinvolti (R&D, Racing, Stile) progettassero e sviluppassero sempre insieme. Secondo me questo ha fatto la differenza. E ribadisco: litigammo molto, ma perché abbiamo dato tutto».
In un contesto del genere, è impossibile non litigare mai.
«È che tutti avevamo delle idee, e chi ne aveva una migliore lottava per portarla avanti. Anche se discutevamo tanto, non eravamo entità separate che pensavano ognuno al proprio problema, come accade in tante aziende, ma tutti eravamo concentrati su un problema unico. Ed è in quel modo che il progetto ha fatto il salto di qualità».
Un argentino in mezzo agli italiani: se quei muri potessero parlare… 
«Ma sì, e allora?! C’era passione, voglia di fare cose belle. Si urlava? Ci si mandava.. Vabbé, ci siamo capiti. Ma non conta. Mi ricordo il piacere di riunirci tutti, dopo che eravamo stati in giro, magari per andare dai fornitori, oppure a Pontedera; anche se ci si incontrava a metà strada andavamo tutti a mangiare insieme (rieccoci al ristorante!). Era bello, quando incrociavamo i ragazzi del reparto corse, quelli che magari venivano dalla galleria del vento, con la RSV4; ci mettevamo a mangiare (ovviamente!) e iniziavamo subito a discutere su quello che bisogna fare, e ognuno dava delle idee: “domani si fa questo, dopodomani quello, e poi quell’altro ancora…”. È stato un periodo bellissimo, caratterizzato da creatività e spirito di corpo». 

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